Quel 23 maggio 1992.
Tredici anni sono abbastanza per capire un fatto del genere.
Tredici anni sono troppo pochi per comprendere, almeno per me lo erano, cosa quel fatto potesse significare.
Perché era stato compiuto? Da chi e per conto di chi?
Ricordo molto bene quel periodo. Ho ricordi anche dei mesi e degli anni precedenti.
Non sono nato in Sicilia, ma nel mio sangue e nei miei occhi scorrevano da tempo le immagini di questa terra bellissima e disgraziata, come dirà Paolo nel suo bellissimo intervento in ricordo dell'amico Giovanni, il 20 giugno 1992.
I miei genitori sono siciliani. Ed io con loro ed i miei fratelli l'estate la passavo al mare, felice e spensierato. Si andava a trovare i parenti. Nonni, zii, cugini, amici.
Alla televisione passavano le immagini, nei telegiornali, delle “gesta” mafiose contro gli uomini dello Stato.
Ma io ero felice. Giocavo insieme al nonno con le macchinine o ero in spiaggia con secchiello e palette insieme agli zii ed i cugini. Ero a casa e giocavo a pallone con gli amici.
Poi, un giorno, la mafia è entrata nella mia quotidianità di bambino.
Quel giorno, lo ricordo ancora come se lo stessi vivendo ora, era il 21 settembre 1990.
Alla TV viene data la notizia dell'assassinio del giudice Rosario Livatino.
Mi colpì il fatto che fosse stato ucciso sulla strada per Agrigento.
Quella stessa strada che percorrevo con l'auto dei miei genitori per raggiungere i parenti ed il mare.
Conoscevo ogni centimetro di quella strada. Dopo quasi milleseicento chilometri percorsi, non vedevo l'ora di arrivare. Osservavo con attenzione il paesaggio, in attesa di scorgere il tempio di Giunone, primo baluardo della Valle dei Templi e della città di Agrigento.
Il luogo di vacanza, la città dove vivevano i parenti, era diventato anche il luogo dove era stata uccisa una persona.
Avevo undici anni quel giorno. Così ho scoperto la mafia. E da quel giorno i fatti di mafia richiamarono, e richiamano ancora oggi, la mia attenzione.
Libero Grassi, la sentenza di conferma del maxi-processo, Salvo Lima.
Tutto questo portava a Palermo. La mafia si era allontanata dalla mia città di vacanza. Forse era stato solo un caso.
Poi un'altra esecuzione. Era il 4 aprile 1992. Sulla strada che da Agrigento scende verso Porto Empedocle, viene assassinato Giuliano Guazzelli. Maresciallo dei Carabinieri.
Viene ucciso nel quartiere Monserrato. Un quartiere che conosco molto bene. Proprio lì abitano abitano i miei parenti.
Un'altra volta la mafia irrompe dentro la mia vita in modo così ravvicinato.
Ma ancora non riesco a comprendere a pieno. O forse il mio essere ancora piccolo mi porta a rifiutare tutto questo.
Il 23 maggio 1992 alle ore 18 mi ricordo,ho guardato l'orologio, sono nel soggiorno a giocare con la mia sorellina più piccola. Ha due anni e stiamo giocando con le costruzioni.
Si sente la sigla del telegiornale, la scritta edizione straordinaria. Mi ha colpito perché non ci avevo mai fatto caso. Non era consuetudine vedere quella scritta.
Appare la solita conduttrice, la signora Buttiglione, che annuncia un attentato vicino Palermo; coinvolti il giudice Giovanni Falcone con la moglie Francesca e gli agenti scorta: Antonio, Rocco e Vito.
Non ricordo altro...
Avevo tredici anni quel giorno.
Ho lasciato mia sorella e sono andato a chiamare papà. Non capivo quello che stava succendendo. Chi può far saltare in aria un'autostrada? Forse gli aerei militari della guerra nel Golfo Persico? Oppure i carri armati della guerra in Jugoslavia? Ma eravamo in Italia, in Sicilia.
Mi ricordo questo della risposta di papà. Non so dire se le sue parole precise fossero queste. Ma ricordo che mi disse che lui, con Francesca Morvillo, la moglie di Giovanni, aveva frequentato il corso di magistratura, dove la signora Falcone era docente.
Mi sono spaventato. Da bambino quale ero – sì, a tredici anni ero ancora un bambino – fui felice del fatto che il mio papà non fosse diventato un magistrato.
Lavorava in tribunale, certo. Ma era a Cantù... non c'era la mafia a Cantù, in Lombardia pensai (anni dopo avrei capito che non è così)... comunque ero sollevato.
Poco dopo arrivò la notizia della morte di Giovanni, in ospedale. E quella fu una durissima notizia per me. Facevo il tifo per lui.
Ed è di quella sera la prima immagine che ho nella memoria di un suo collega, Paolo. Non ricordo di averlo visto prima in TV.
Avevo tredici anni quel giorno. E li avrei avuti anche cinquantasette giorni dopo....
«Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per ciò che ha fatto. Contano le azioni non le parole. Se dovessimo dar credito ai discorsi, saremmo tutti bravi ed irreprensibili»
Giovanni Falcone